martedì 26 luglio 2016

Un paese di mera sopravvivenza


Nonostante le banche centrali abbiano portato a zero il costo del denaro e inondato il sistema finanziario di liquidità (con il rischio più che certo di nuove bolle), l’economia non si riprende e a mancare sono soprattutto gli investimenti privati. Sui motivi della crisi degli investimenti produttivi sarebbe necessario scomodare Marx e la teoria della caduta tendenziale del saggio diprofitto. Figuriamoci se qualche economista si prende la briga di farlo: Piketty ha ammesso di non avere letto Marx, e quanto agli altri si tratta solo di chiacchieroni che ignorano totalmente che cosa abbia effettivamente scoperto il maggior critico dell’economia politica.



Molti analfabeti s’azzardano ancora a dire che il capitalismo di Marx non è quello odierno, mettendo in luce con tale affermazione di non aver mai nemmeno sfogliato l’opera marxiana, non parliamo poi di comprensione del suo metodo d’indagine. Per esser sintetici, schematici, didascalici, vorrei dire bruschi, è appena il caso di rilevare che per Marx il suo oggetto d’indagine è “il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono”, e non l’Inghilterra che pure, nella sua epoca, era di questo oggetto la “sede classica”. Certo, essa è presa in considerazione da Marx nella costruzione della sua teoria, poiché essa rappresenta la forma più sviluppata del fenomeno che egli considera; ma, nella Prefazione alla prima edizione (luglio 1867) de Il Capitale, critica dell’economia politica, Marx mette in chiaro che:

«In sé e per sé, non si tratta del grado maggiore o minore di sviluppo degli antagonismi sociali derivanti dalle leggi naturali della produzione capitalistica, ma proprio di tali leggi, di tali tendenze che operano e si fanno valere con bronzea necessità. Il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l'immagine del suo avvenire.»

In altri termini, ciò che interessa a Marx è il modo di produzione capitalistico in generale, le sue leggi e le sue tendenze, e non, invece, una sua forma determinata ad un qualche stadio del suo divenire.

Tuttavia non si può più perdere tempo andando appresso a queste cose.

*

Nel primo dopoguerra, a risollevare le sorti dell’Italia, uscita stremata dal conflitto, furono gli aiuti americani dell’ERP (compresi i massicci investimenti in dollari) e alcune semplici ma efficaci misure di politica economica del governo De Gasperi e del ministro Einaudi. Anzitutto l’apertura alle esportazioni, alla quale si oppose – può sembrare oggi un paradosso – la Confindustria; la svalutazione della lira sul dollaro, dunque sull’oro che faceva agio e conseguentemente su tutte le altre monete. Il cambio passò da poco più di 225 a quello di 626 lire (che si mantenne per decenni). Inoltre si può citare anche la totale libertà concessa al padronato di licenziare (la Fiat mandò a casa 20mila maestranze, soprattutto quelle sindacalizzate, quadri e simpatizzanti del PCI-PSI).

Quella svalutazione competitiva fu quanto mai benefica per le esportazioni nazionali e non ebbe significative ripercussioni sul piano della condizione dei salariati, i cui consumi erano – già dall’epoca fascista – a livelli di mera sussistenza e spesso al di sotto. Il prezzo stracciato della forza-lavoro permise di riassorbire, in pochi anni, la disoccupazione. Tale svalutazione operata sul cambio ufficiale ebbe effetti decisivi sul mercato libero (quello più largamente praticato) laddove il rapporto toccava anche le mille lire. In altri termini si prese atto di una realtà, e invece di opporvisi ostinatamente (come si fa oggi per altri temi) difendendo un cambio ufficiale insostenibile, si scelse opportunamente di adattarsi alla congiuntura del mercato limitando i danni e anzi traendone dei benefici.

Oggi, invece, una svalutazione di tali dimensioni, o anche più contenuta, ottenuta con un’eventuale ritorno a una moneta nazionale, avrebbe effetti devastanti su salari e pensioni (svalutazione strisciante che per questa via già avviene in vigenza dell’euro), dunque tra l'altro anche sui consumi interni. Mettere i nostri salari in competizione, più di quanto già non avvenga, non dico con quelli extra-europei ma già con quelli rumeni, ungheresi, serbi, eccetera, si rivelerebbe una scelta scellerata e insostenibile sul piano della tenuta sociale.

Sia ben chiaro, tra l’altro, e lo dico per inciso, che se sono state fatte delle riforme in questo paese, esse riguardano segnatamente le normative che consentono il supersfruttamento del lavoro!

È cambiato completamente il quadro economico nazionale e internazionale. Una svalutazione monetaria avrebbe sì degli effetti positivi sulle nostre esportazioni (le quali peraltro – tenuto conto della contingenza – restano, in rapporto alle importazioni, positive al netto della spesa energetica), ma non innescherebbe alcun reale e soprattutto duraturo ciclo virtuoso per l’economia. 

Bisogna tener conto delle profonde modificazioni intervenute nella divisione internazionale del lavoro e sulla strutturata dall’organizzazione produttiva globale. Il quadro internazionale a tale riguardo è molto cambiato. Il Medio Oriente e l’Africa restano ancora zone di estrazione delle materie prime, però l’Asia ha cambiato volto ed è divenuta la “fabbrica del mondo”, mentre l’Europa e Stati Uniti incontrano forti difficoltà a continuare a essere le aree in cui vendere le merci prodotte.

Le cause della difficoltà italiana ad adattarsi a questo quadro internazionale sono dovute in non piccola parte alla peculiarità delle sua classe dirigente (posto che oggi ne esista realmente una degna di tale nome), la cui arretratezza va ricercata nel contesto storico-sociale nel quale si è formata, laddove si ravvisa un forte rapporto con la politica alimentato dal clientelismo, dalla corruzione e dal parassitismo. Di conseguenza la struttura produttiva messa in piedi risente dei pochi capitali investiti, e ciò dipende innanzitutto dal fatto che la maggior parte dei profitti è sempre rimasta tesaurizzata invece di prendere la via dell’innovazione e della ricerca.

E a tale riguardo è nota la quota troppo alta di piccole e medie imprese a fronte di pochi grandi gruppi, peraltro a controllo familiare, forti di posizioni di monopolio/oligopolio grazie alla vicinanza con la politica; la fortissima presenza dello Stato nell’economia, con la proprietà diretta di banche e società; il capitalismo di relazione, i famosi patti di sindacato, tra i quali Rcs e dunque una fetta importante della stampa, il ruolo di Mediobanca, il ‘bancocentrismo’, peculiarità italiana, laddove per reperire capitali da investire si sottoscrivono prestiti con l’obbligo di acquistare azioni o obbligazioni della banca stessa invece di rivolgersi sul mercato azionario.

Questa situazione in parte è stata superata e in buona parte non ancora, com’è evidente dalla capitalizzazione della Borsa milanese, tra le più basse d’Europa. Soprattutto permane irrisolta la questione forse più decisiva a riguardo dello sviluppo complessivo del paese, ossia la questione meridionale, con una divaricazione tra Nord e Sud che si fa sempre più netta, giunta ad un grado di severità ormai irreversibile. Basti pensare all'assenza di una rete dei trasporti adeguata per stabilire una vera interazione con il resto del paese e con l’estero. E anche ciò che si è realizzato dal punto di vista infrastrutturale più generale è stato fatto spesso male e ciò che ci si propone di fare giunge in ritardo di mezzo secolo almeno. Ed è fin troppo nota poi la collusione della politica e delle istituzioni, a tutti i livelli, con la criminalità organizzata.

Ora si tende a scaricare le responsabilità del ritardo e delle sopraggiunte difficoltà sull’euro e sulla UE, segnatamente sulla Germania. E invece l’Europa e l’euro si presentavano come occasioni uniche, fattori decisivi per accelerare il passo delle riforme strutturali (vere, non solo annunciate), ma troppi interessi si sono frapposti, a cominciare da quell’imprenditoria abituata a tenere il culo al caldo. Ed eccoci a soffrire la competizione su scala globale, sofferenza che si evidenzia ben prima della crisi.

Con la crisi, poi, ci si accorge che il tempo è scaduto, che le difficoltà per riorganizzarsi sono enormi. E, del resto, che cosa si sceglie di fare? Delle confuse e contraddittorie riforme dell’assetto istituzionale allo scopo di offrire più potere all’esecutivo e creare così le premesse – almeno si dice – per una più forte e decisa politica riformista e per dare dimensioni adeguate e una svolta più moderna, cioè rivolta al mercato globalizzato, all’asfittico capitalismo nazionale.

Tuttavia, se e quando sarà realizzata una riorganizzazione complessiva della struttura economica e delle imprese italiane (che procede di per sé anche se lentamente e grazie, paradossalmente, alla crisi), non andranno perciò stesso a soluzione i gravi problemi sociali, primo tra tutti quello della disoccupazione. I nuovi equilibri creati dalla globalizzazione e le nuove tecnologie stanno emarginando sempre più il bel paese dai processi di trasformazione del capitalismo globale. Stiamo diventando sempre più, con le altre nazioni del Sud Europa, un paese di nuova emigrazione e di mera sopravvivenza.


5 commenti:

  1. Come dicevi, a proposito di terrorismo segnalo questo molto significativo:

    PTV news 25 luglio 2016 – Nizza e Monaco: il doppio testimone

    http://www.pandoratv.it/

    Sì, lo pensavamo tutti, ma averne la certezza è pesante.

    ciao,g

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  2. accanto all' ineguale sviluppo economico vi è l'ineguale sviluppo politico; sopra entrambi, in stretta relazione, vi è quello sociale

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  3. "Ora si tende a scaricare le responsabilità del ritardo e delle sopraggiunte difficoltà sull’euro e sulla UE, segnatamente sulla Germania"
    lo scrivi ma non ci credi ed invece é vero. siamo in pieno capitalismo che sta collassando e quindi i più furbi, e i tedeschi lo son sempre stati, metton sotto quelli che, appunto capitalisticamente, chiedono "più europa!" pur non comprendendoci una mazza. ti ricordo che la cosidetta moneta unica é stato un obiettivo del potere crucco già dai tempi hitleriani.
    franco valdes piccolo proletario di provincia

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  4. I dati di Unimpresa con Bankitalia alla fine del 2015 :
    la capitalizzazione delle spa italiane è aumentata di 81,2 mld. (+17,78 % ) ma gli investitori stranieri arrivano a 276,7 mld. In Borsa il 51% del capitale è in mano a soci stranieri.
    Tra i padroni le imprese contano il 19,27%, mentre le famiglie pesano per il 12,39%.
    Lo Stato ha un ruolo ridotto, ha titoli per 13,7 mld e sono il 2.56% del totale.

    Euro sì/euro no : il confronto fra economisti veri e sedicenti è serrato, la massa come sempre subisce. Resta il fatto che alcune note e noterelle tra le norme di Maastricht e Lisbona sono tutt'altro che paritetiche.
    Forse Adenauer, De Gasperi e Schuman erano in buona fede, ma mescolare mediterraneo e oltralpe era azzardato anche all'epoca.

    Diventeremo il b&b dell'Europa.

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  5. "Oggi, invece, una svalutazione di tali dimensioni, o anche più contenuta, ottenuta con un’eventuale ritorno a una moneta nazionale, avrebbe effetti devastanti su salari e pensioni"

    tutti gli studi finora effettuati mostrano il contrario. Un'uscita dall'euro non comporterebbe presumibilmente un'inflazione maggiore del 30 %. Da dove le viene questa certezza ? D'altronde che una svalutazione del 20-30 % non possa avere effetti devastanti è questione di puro buon senso.

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