giovedì 28 aprile 2016

Un selfie


Viviamo un momento storico davvero peculiare, in cui l’attività umana è riuscita a produrre nelle nostre società progressi e mutamenti che non è avventato definire rivoluzionari. Tuttavia da molte fonti sentiamo arrivare echi di grave allarme per le sorti dell’ecosistema planetario, di seria incertezza per il perdurare della crisi e le forme sempre più ampie e acute di disuguaglianza, quindi di preoccupazione per l’involuzione dei sistemi politici, di dissociazione tra democrazia e capitalismo (maggiore democrazia genera minore governabilità, insegna la Trilaterale). Deve dunque trovarsi una causa fondamentale di questa situazione, tra le tante che possono concorrervi (*).

Questa causa, se non si vuole ricorrere semplicisticamente a motivi d’ordine psicologico o meramente sociologico, è da rintracciare nello strapotere che ha assunto l’economia nelle nostre società, l’assenza di vincoli reali cui è lasciata la sua azione, la dimensione oligarchica che hanno assunto industria, banche, finanza; la totale subordinazione al capitale cui è stato lasciato il lavoro in nome delle “compatibilità” di sistema (salari da fame e orari da pazzi, fidelizzazione dei lavoratori all’impresa entro un sistema mediato da ricatti), la sostituzione dei diritti con politiche di sussidiarietà e una cultura della carità (un’imprenditorialità “no profit” assai lucrosa). A questo terremoto sociale si risponde in buona sostanza con la propaganda più smaccata (**).



Coloro che si occupano di questi temi, vale a dire i politici (sempre meno legati alla logica del consenso elettorale, posto che possono modificare le leggi elettorali a piacimento), economisti, sociologi, giornalisti, eccetera, dichiarano che le forze che muovono l’economia possono essere, attraverso misure legislative mirate, controllate e regolate in modo da farle operare con maggior equilibrio e minor danno. Essi sono ben consapevoli del ruolo dello Stato nel processo di valorizzazione e accumulazione del capitale, e però fanno gioco nel dirsi patrocinatori delle richieste di radicale riforma provenienti dal basso, che però si scontrano inevitabilmente con la dinamica capitalistica.

E ciò riguarda inevitabilmente anche il welfare, che ha dato in passato e parzialmente ancor oggi risposte alla marginalità sociale e modo a molti di sopravvivere. E tuttavia, nell’ambito di un sistema sociale contraddittorio e fortemente corporativo, esso si è rivelato essere un baraccone dove sguazzano apparati politici, sindacali e trafficanti di ogni risma, ponendo i motivi per attuare il suo progressivo smantellamento a favore dell’“efficienza” del capitale privato. Ciò crea una situazione sociale di forte insicurezza, di paura, e di riflesso di apatia e sfiducia verso la rappresentanza politica, peraltro esautorata dagli esecutivi nazionali e sovranazionali.

Questa disaffezione e apparente disimpegno possono essere funzionali al potere e alla cosiddetta “governabilità”, poiché non producono partecipazione politica e dunque richieste, sempreché siano confinati in gruppi sociali non troppo ampi e numerosi, soprattutto se capaci di articolare pensieri critici e antagonisti fuori dagli schemi degli hashtag e del cinguettio, dunque gruppi e fasce sociali potenzialmente pericolosi nel quadro dei cambiamenti in corso e in quelli che verranno, perché in grado di trovare la forza e la capacità per organizzare una risposta destabilizzante (***).

Stante la radicalizzazione sempre più spinta delle contraddizioni sociali, il potere sta agendo prevalentemente in due direzioni: da un lato mettendo i poveracci gli uni contro gli altri, come nel caso della questione dell’immigrazione (la percezione di una seria minaccia che riguarda la stabilità e il benessere di tutti) o delle pensioni; dall’altro, posto il tasso intollerabile e pericoloso della disoccupazione giovanile, indice concorsi e concorsoni allo scopo di assorbire nell’ambito del pubblico impiego una parte di quella popolazione più scolarizzata e potenzialmente più critica e disposta allo scontro sociale aperto, con un ritorno anche sul piano elettorale e nell’obiettivo di creare coesione sociale.

Per il resto non resta che attendere che sulla linea di faglia della crisi capitalistica (“crisi profonda dai contorni ancora imprecisi ma di sicuro inquietanti” scrive Ernesto Galli della Loggia, tra i suggeritori di strategia più attivi e ascoltati) venga a prodursi un nuovo e più vigoroso tsunami finanziario.  

(*) Osserva Mauro Campus, nel Domenicale del 24 aprile, che a riguardo delle disuguaglianze sociali, nei documenti dell’Ocse e del Fondo monetario internazionale si sostiene, pur stigmatizzandole come fenomeno di ritardo per il ristabilirsi di un ritmo di crescita stabile, che “non avendosi ancora una spiegazione completa dei meccanismi che ne sono alla base, la disuguaglianza è lontana dall’essere considerata una priorità politica”.

(**) La politica sociale degli Stati viene decisa occultamente senza che vi sia nessun reale dibattito pubblico, oppure attraverso un dibattito completamente falsato e spettacolare come nel caso delle pensioni. Vedere come si muovono i flussi finanziari della spesa pubblica significa capire come vanno le cose.

(***) Del resto che il disimpegno verso il voto si traduca in impegno verso altre forme di partecipazione non è da escludere, specie nei momenti più acuti della crisi e del conflitto sociale. E non è da sottovalutare nemmeno l’astensione di massa quando a non votare è il 63% come alle regionali dell’Emilia Romagna.


5 commenti:

  1. sistema sociale contraddittorio e fortemente corporativo, esso si è rivelato essere un baraccone...
    Ed e' su questa tragica realtà di " inefficienza" su cui sono cozzati tutti i socialismi da quello " sovietico" a quello " bolivarista" che bisognerebbe riflettere .
    Perché ( come qui viene sempre splendidamente descritto ) il " male" capitalista è chiaro , ma "la cura" socialista non funziona mai e di certo c'è qualcosa di sbagliato che va corretto prima che sia troppo tardi .

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  2. Con un piccolo particolare : sia quello sovietico e meno che mai quello bolivarista ,possono definirsi "sistemi socialisti".
    Il male è" oggi" il Capitalismo,che meno che mai può essere corretto.
    Toglietevelo dal cranio.

    caino

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  3. Come conseguenza ultima verrebbe da aggiungere che il capitalismo privato è intrinsecamente biologico rispetto a quello irrazionale razionale del capitalismo di Stato. Non è che oggi gli essere umani siano più avidi delle generazioni passate, ma piuttosto sono proporzionalmente maggiori di un di tempo le opportunità per sfogare la propria avidità.
    E' pensabile e auspicabile che una diversa organizzazione sociale, socialista, possa determinare un cambiamento ma non può prescindere prima da un ritorno al concetto di limite e di misura, un tempo anche recente, 'abbastanza' trasversale nelle classi. (La prima obiezione più naturale è che per la massa quel concetto fosse determinato dalla sola indigenza).La pretesa antropocentrica su tutti i fronti in questi ultimi cinquant'anni si è fatta esponenzialmente esagerata.

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  4. Un bel post in cui scruti bene attraverso le contraddizioni (pressione economica/irrilevanza politica, dimensione nazionale/mondiale, welfare/tasso di profitto) che trattengono anche il proletariato -a livello mondiale- nella stessa stagnazione del Capitale in crisi.

    E' quasi ovvio che le lotte, ci fossero, in questa situazione, non possano che convergere sul welfare: più che su una sua difesa su un suo consapevole e manifesto aggancio al saggio di profitto: di sicuro non come freno e limite ad esso. Questo vale per i paesi terziarizzati come per quelli che hanno appena conosciuto un tumultuoso sviluppo industriale o a quelli rentier. Sennò si ricasca nelle contrapposizioni tra proletariati basati qui piuttosto che là, cioè non si ottiene nulla.

    Detta così sembra una utopia ecumenica ma l' assenza o quasi (no news dalla Cina) di lotta di classe ci racconta bene l' attento frazionamento operato sulle classi dominate mentre la centralizzazione dislocata del Capitale, la globalizzazione dello sfruttamento del lavoro -e di tutto quanto il resto- procedeva.

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    1. ormai si scrive per pochi
      i lettori mostrano di avere altri interessi
      non ho nessuna voglia di adeguarmi
      e del resto non ne sarei capace

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