mercoledì 6 agosto 2014

L'Asinara


Roberto Napoletano, direttore de Il Sole 24ore, nonché consueto editorialista del Domenicale, domenica scorsa ha dedicato il suo pezzo all’isola dell’Asinara, all’amarezza inconsolabile della sua bellezza. Da ciò che racconta è evidente che è rimasto sull’isola per poche ore, forse per qualche giorno, una fortuna che non capita a tutti. In ogni senso.

Napoletano riporta ciò che rammenta Pierpaolo Congiatu, direttore del parco dell’isola, ossia che lì “vivevano pastori e pescatori abbandonati da tutti, ma una bella sera furono deportati a Stintino per fare posto al lazzaretto e al carcere”. Non dice quando ciò avvenne, ma posso precisare la data: 1884, ossia quando si decise di fare dell’isola un luogo di detenzione. Pare non risultino discendenti di quegli esiliati forzati.

Nemmeno di quale lazzaretto si tratti è specificato nell’articolo, e quanto al carcere ricorda “i grandi penitenziari che hanno ospitato boss del calibro di Riina e Cutolo”. Non una parola nell'articolo sul fatto che l’isola sia nota per essere stata il campo di detenzione di prigionieri politici. È anche questo un modo di fare memoria storica. A mia volta non è di ospiti relativamente recenti dell’isola che voglio dire, ma di quelli presenti durante la Grande guerra. Tra le molte cose curiose occorse durante il periodo di detenzione dei prigionieri asburgici (ve n’erano però anche di tedeschi) all’Asinara, c’è n’è una di particolarmente singolare, ossia la caduta di un enorme oggetto volante al cui interno furono trovati quattro corpi. Di questo dirò poi.

Di seguito alcuni dati relativi all’isola: ha una superficie di 52 km, è a 14 miglia nautiche da porto Torres, dunque nella parte nord occidentale della Sardegna, raggiunge la massima lunghezza (in linea retta da punta Salippe alla settentrionale punta dello Scorno) di 17 km e mezzo, e la massima larghezza (da punta Crabara a punta Gian Maria Cucco) di 7 km. Possiede 110 km di coste, la quota più elevata, citata anche nell’articolo di Napolitano, è quella di punta della Scomunica (408 m). Prevalentemente arbustiva è dominata da venti di est e di nord-ovest, e il suo clima è molto mite.

Dato il suo completo isolamento fu scelta come stazione sanitaria e come colonia penale agricola. A Cala d’Oliva è la direzione della colonia penale e residenza del personale di custodia. Lì vi era anche la parrocchia e l’ufficio telegrafico. Da Cala d’Oliva, seguendo verso sud una strada costiera sinuosa, si giungeva al lazzaretto o Cala Reale. Prima di giungervi, appena passata punta del Trabuccato, s’incontrano dei fabbricati, costruiti in origine nel 1885 quali stazioni sanitarie per il periodo di quarantena per le persone sbarcate sull’isola. Tali caseggiati, erano stati, fino al dicembre 1915, occupati in parte da ergastolani e dal relativo personale di custodia, altri adibiti a magazzino, altri ancora lasciati vuoti. Seguendo la strada che passa per Cala Reale si giunge a Campo Perdu, Stretti, Tumbarino e Fornelli.

I reclusi vi coltivavano poche cose: alcuni vigneti, qualche campo di frumento e biada, e già era in numero ridotto la presenza degli asinelli bianchi dagli occhi azzurri che vivevano allo stato brado nelle alture. A quei tempi i mezzi di collegamento con la Sardegna erano a vela, compreso il servizio postale giornaliero nella tratta Cala Reale – Porto Torres, quando il mare lo permetteva. Ogni martedì però, a Cala d’Oliva, giungeva il postale proveniente da Genova – Livorno – Caprera – Maddalena – Porto Torres. E il giovedì vi faceva scalo quello proveniente da Cagliari per Alghero. L’approdo però a Cala d’Oliva era facoltativo. Poi c’era la navetta cisterna Dora, che riforniva d’acqua, assai scarsa nell’isola. Insomma, una bellezza inconsolabile, soprattutto se non a scopi turistici.

Sennonché nel 1915-’16 l’Italia si fece carico dei prigionieri austro-ungarici, ma non di quelli provenienti dal fronte italiano, bensì di quelli catturati dai serbi e che nella loro ritirata, sotto l’incalzare asburgico, i soldati di re Pietro traevano con sé fin verso l’Adriatico, cioè fino al porto di Valona, dove, raccolti e imbarcati su navi italiane, furono poi inviati in l’Italia. I più fortunati, si dovrebbe dire, poiché furono migliaia coloro che morirono nella marcia da Niš a Valona (Vlora).

Dove si sarebbero potuti alloggiare, nutrire, curare e sorvegliare questi prigionieri? Non in una qualche sperduta isola, sicuramente, viste le loro condizioni a dir poco “pietose” e “miserande”, come ebbe a suo tempo a rilevare chi li vide imbarcare a Valona. L’ordine di predisporre l’Asinara a ricevere i prigionieri giunse di pochi giorni l’arrivo degli stessi sull’isola.

Il 16 dicembre, periodo ideale per questo tipo di escursioni, su ordine del comando della legione di Cagliari, giunse sull’isola il capitano dei carabinieri reali Curti Giardino (che non ho conosciuto) con sedici militi, il capitano di commissariato Ulleri ed il ragioniere del genio sig. Canessa, i quali avevano l’incarico di predisporre ai bisogni, inizialmente, dei 5 o 6 mila prigionieri in arrivo! Alla ricezione dei materiali necessari, diciamo così, fu inviato il giorno 14 a Porto Torres il sottotenente Scano.

Nel pomeriggio del giorno 17, giunsero nell’isola il ten. col. della riserva Efisio Paulis, il quale assunse il comando del costituendo presidio, e il comm. Giuseppe Druetti, medico provinciale di seconda classe, quale ispettore di sanità pubblica, quindi il cav. Paolo Brigida, medico di terza classe, ed il dott. Raimondi, medico di porto. Restava da provvedere alla sorveglianza dei prigionieri e alla sicurezza dell’isola, e perciò un fatto sbarcare il giorno 18 la 3^ compagnia del 319° btg. territoriale (immaginiamo costituita da quali scarti della leva), con un tenente e tre sottotenenti.

Ma già dei prigionieri, quel mattino stesso, erano giunti con i piroscafi Alighieri e America, in totale 3.716 uomini di cui 635 ufficiali. Durante la traversata si erano verificati dieci decessi. Uno dei primi problemi che si presentarono, non il più grave però, fu quello delle lingue. Incomprensibili non solo, immaginiamo, al dott. Efisio Paulis, ma incomprensibili anche ai prigionieri stessi, di diverse nazionalità, per cui le traduzioni che si poterono rimediare portarono confusione sui nomi che non di rado furono completamente cambiati.

Dagli atti della capitaneria di porto e da quelli della stazione sanitaria dell’Asinara, si rileva che i prigionieri dell’esercito asburgico sbarcati sull’isola furono complessivamente 23.339, ma da Valona ne partirono 23.854. E tuttavia sono solo 515 quelli ufficialmente non giunti sull’isola, e non 522.


I sette corpi mancanti furono probabilmente gettati in mare. Inoltre, bisogna tener conto che parecchie cifre sono soltanto approssimative. Per esempio, il maggior numero di deceduti durante la traversata si ebbe in un unico trasporto, quello del piroscafo Duca di Genova, ma in tal caso i deceduti in mare sono indicati in “circa 300”, ufficialmente e prevalentemente morti per gastroenterite.

Furono complessivamente 20 i trasporti, con 17 diversi piroscafi e una nave ospedale, la Re d’Italia. Solo il piroscafo Alighieri (*) e il Folkeston effettuarono due viaggi. Vennero trasportati anche 100 profughi e “un borghese di passeggio” (sic), nonché 488 feriti e malati italiani.

I medici di bordo dei piroscafi ebbero a dichiarare che non vi erano malattie infettive (“diffusibili”) in alcuna delle navi, e che i dieci prigionieri morti a bordo dell’America, uno a bordo del Cordova e due a bordo del Valparaiso, erano morti per esaurimento e malattie comuni. Ma tutte queste diagnosi andavano poco in accordo con i denunciati casi dissenterici e di “diarrea sospetta”, tanto più che come detto furono centinaia i morti nel Duca di Genova (**).


I prigionieri arrivarono all’Asinara in uno stato deplorevole, molto denutriti e seminudi, dovuto alla lunga detenzione in Serbia. Naturale che moltissimi di loro fossero malati, estenuati e moribondi. L’epidemia più perniciosa e diffusa era quella colerica, ed è questo il motivo principale dei molti decessi in mare e poi all’Asinara, dove l’epidemia dilagò rapidissimamente, soprattutto nei campi organizzati a Fornelli (141 decessi solo tra il 4 e il 5 gennaio 1916) e Stretti (123 tra l’11 e il 12 gennaio), e ciò nonostante i prigionieri avessero effettuato a suo tempo in patria profilassi con iniezioni anticoleriche. Tuttavia, pur evincendo chiari sintomi (p. es. diarrea, crampi e barra epigastrica, più raro il vomito) non fu possibile stabilire ufficialmente con certezza le cause del morbo se non verso la metà di gennaio 1916 a seguito delle analisi effettuate su reperti clinici.

Ai pazienti furono somministrate bevande di limonata, non meglio specificati tonici cardiaci, cognac e acquavite a volontà, ma specialmente, quale “antibacillare”, vernaccia a 18° fornita dalla società Vinalcool di Cagliari, quindi iniezioni di caffeina e olio canforato (molto in uso all’epoca) e somministrazione di laudano. Se non altro, forse, morirono sereni. Vi furono anche casi di tubercolosi, tifo e nefrite. Si ebbero problemi sanitari anche per l’ingestione di bulbi della scilla marittima (cipolla di mare, molto abbondante nell’isola), una pianta dai fiori bellissimi ma i cui bulbi, specie se ingeriti freschi, sono velenosi tanto da venire usati come topicida.

Furono centinaia i soldati prigionieri inviati per cure negli ospedali di Cagliari e di Sassari, il 17 marzo ne rientravano 100 di guariti. Gli inviati a Cagliari furono complessivamente 571, a Sassari 65, e di questi al 22 aprile 1916 ne erano rientrati 453, ne erano morti 78. Allo stesso giorno gli ammalati nei campi di Fornelli, Tumbarino, Stretti, Campo Perdu e all’ospedale Cala Reale, erano 1.147. Da marzo si manifestarono anche dei casi di tifo esantematico, ma i pareri dei medici furono discordi. Dal primo marzo al 22 aprile si ebbe una mortalità totale di 305 uomini su una forza media giornaliera di 16.737, cioè il 3,4 per cento al giorno.

Complessivamente si può dire che ai prigionieri furono prestate le cure necessarie, tenuto conto del loro stato di salute, dei mezzi sanitari disponibili all’epoca e della situazione di guerra, e che anzi si provvide loro, superati la prima fase di difficoltà, con molto scrupolo. Furono impiantati, con ottimi risultati, anche dei forni per il pane, e costruite numerose infrastrutture e migliorati i collegamenti stradali. Non tutti però sono concordi con questa versione, specie a sentire l'allora capitano Giuseppe Agnelli che nel 1961 scrisse una controstoria (che non ho potuto recuperare e leggere).

Vi fu almeno un episodio di tentativo di “eludere la vigilanza delle guardie”, e a farne le spese fu il sergente maggiore Tager, ucciso da una sentinella il 27 gennaio. Esisteva tra i prigionieri, di diversa etnia, uno spirito di avversità che in qualche caso si fece minaccioso, dovuto al fatto che nell’esercito austro-ungarico, contrariamente alle leggi, era netta la distinzione ed assai diverso il trattamento usato ai sudditi austro-ungarici in confronto a quello usato ai sudditi appartenenti alle nazionalità croata, serba, slovena, ceca. Ciò spiega bene anche il famoso episodio di Carzano del 1917.

Agli ufficiali, 637, fu riservato un trattamento assai diverso da quello dei semplici soldati, infatti veniva corrisposta loro una piccola paga, avevano cucine e vitto a parte. La loro permanenza nell’isola fu però breve giacché, ad eccezione degli ufficiali medici, vennero fin dai primi di gennaio trasferiti in massima parte a Portoferraio e altri in Sardegna, al villaggio minerario di Monte Narba (qui, alla villa Madama, residenza del responsabile della miniera, e presso gli uffici tecnici, un maggiore austriaco, pratico di pittura, "affrescò con gusto". La miniera a quel tempo non era già più produttiva e vi si effettuava solo "ricerca").

Nessuno degli oltre 23mila prigionieri asburgici (di varie nazionalità dell’impero, compresi trentini e dalmati) avrebbe potuto immaginare, all’atto della dichiarazione di guerra nel 1914, che di lì ad un anno e mezzo avrebbe dovuto affrontare una marcia calvario attraverso la Serbia e l’Albania, soffrendo una fame disperata e con episodi di cannibalismo, per poi giungere a una isola ignota al mondo, arida, incolta, deserta, rocciosa e inospitale, posta tra la Sardegna e la Corsica. Quasi un terzo di loro morirono durante il trasporto in mare e poi una volta giunti all’Asinara, per malattia. Come da precedenti accordi, nel giugno del 1916 furono reimbarcati su navi francesi e trasportati in Francia, poi in prigioni come quello di Camp de Carpiagne (43 ° 14 '54 "N 5 ° 30 '43" E).

*

Nella tarda mattinata del 12 maggio 1916, compariva sopra il braccio di mare compreso tra l’Asinara e la Sardegna, ad un’altezza di 600 metri e proveniente da nord, un oggetto “dalla forma di un sigaro allungato”. L’oggetto, si legge in una relazione ufficiale, “sembrava dapprima procedere con una certa velocità e non manifestava alcun che di anormale”.

D’un tratto però, prosegue la relazione, “sembrò ripiegarsi su sé stesso, presentando una strozzatura al centro”. Impressionato da tale fatto e dal vedere cadere in acqua “materiali che producevano altissimi zampilli”, il comandante del presidio dell’Asinara, il quale stava osservando da terra la scena, “diede ordine alla regia nave Ercole, ai rimorchiatori Oceania e P 23, alle barche a vapore che aveva a sua disposizione”, di attivarsi rapidamente e di “partire al primo ordine”.

L’aeromobile, frattanto, “mutando rotta e dirigendosi verso l’Asinara era ritornato nella sua forma normale di sigaro allungato. Però, il suo procedere – si legge sempre nella relazione – sembrava incerto, tanto che, dopo pochi minuti, tornava a virare di bordo, ed appariva nuovamente floscio”. A quel punto, il comandante del presidio ordinò al rimorchiatore Oceania, sul quale s’imbarco egli stesso, e alla regia nave Ercole ed agli altri rimorchiatori di salpare e procedere al largo.

Il passaggio dell’aeromobile era previsto e gli ordini impartiti dal comandante del presidio non furono casuali. Infatti, il comando militare dell’Asinara era stato allertato per tempo del passaggio di un dirigibile francese, denominato “CM-T-1”, nel caso ci fosse bisogno di un ancoraggio d’emergenza nell’isola. Sennonché le eventuali difficoltà incontrate dal dirigibile nella sua attraversata divennero quella mattina drammatica realtà.


L’Oceania si era appena staccato dal pontile quando il dirigibile, ripiegatosi a metà, precipitava, e, ad un terzo della sua caduta, s’incendiava con una vivacissima vampata. Furono recuperati quattro cadaveri e due rimasero dispersi. Le quattro salme, ricomposte presso l’ospedale principale dell’isola, furono imbarcate il giorno dopo con semplice ma imponente cerimonia sul piroscafo militarizzato Golo II al comando del tenente di vascello Charles Lorin (***).

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(*) Il piroscafo Dante Alighieri venne costruito nel 1914 dalla Società Esercizio Bacini di Riva Trigoso per conto della Società La Transatlantica Italiana di Genova, fondata nello stesso anno succedendo alla precedente Società Ligure - Brasiliana dell'On. Gavotti. Fu varato il 28 novembre 1914.

Prua verticale, due alberi, due fumaioli.Stazzava 9.754 tonnellate. Lunghezza 153,48 metri, larghezza 18,10. Propulsione a due eliche, velocità 16 nodi.Disponeva di alloggiamenti per 100 persone in prima classe, 260 in seconda e 1.825 in terza.

Il 10 febbraio 1915 fece il viaggio inaugurale sulla rotta Genova - Napoli - Palermo - New York e, superato indenne il periodo della prima guerra mondiale, continuò sulle rotte atlantiche ed iniziò l'ultimo viaggio su questa rotta nell'ottobre 1927.
Arrivò a New York il 5 novembre 1927 ed il 15 novembre ripartì per Lisbona - Napoli - Genova. Nel 1928 fu venduto a una compagnia di navigazione giapponese che lo ribattezzò con il nome di Asahi Maru. I due fumaioli furono ridotti ad uno.
Il 5 dicembre 1944 fu seriamente danneggiato in una collisione al largo di Bisan Seto nel Mar del Giappone. Riparato e rimesso in mare, nel 1949 fu disarmato ed avviato alla demolizione che avvenne in Giappone nello stesso anno.

(**) Il piroscafo Duca di Genova fu costruito nel 1907 dai Cantieri Navali Riuniti della Spezia per conto del Lloyd Sabaudo.
Prua verticale, due alberi, due fumaioli. Stazzava 7.893 tonnellate. Lunghezza 145 metri, larghezza 16,25. Motori N. Odero & C. di Sestri Ponente. Sviluppava una velocità di 16 nodi. Poteva ospitare 80 passeggeri di prima classe, 16 di seconda e 1.740 di terza.
Fece il suo viaggio inaugurale il 18 ottobre 1908 sulla rotta Genova - Napoli - New York. Il 29 ottobre 1912 iniziò l'ultimo viaggio su questa rotta. Al ritorno il Duca di Genova fu ceduto alla Compagnia La Veloce e prese servizio sulla rotta del Sud America, per passare successivamente alla Navigazione Generale Italiana. Il 27 settembre 1914 partì da Genova per un singolo viaggio per Palermo - Napoli - New York e ritorno. Nel 1915 fece un altro viaggio sulla stessa rotta; nel 1916 ne fece altri due, l'ultimo con partenza da Genova l'11 settembre 1916. Al suo ritorno nell'ottobre 1916 il governo italiano requisì il Duca di Genova ed adibì il piroscafo al trasporto delle truppe.

Il 6 febbraio 1918, traversando il Golfo del Leone, fu silurato dal sommergibile tedesco U 64 del Kapitänleutnant Robert Morath ad un miglio da Cape Canet alla pos. 39°36’N – 00°11’O mentre era in rotta da New York a Genova con un carico di merci varie. Il piroscafo, danneggiato, riuscì ad arenarsi sulla costa ma venne irrimediabilmente perduto ed affondò nelle acque di capo Canet davanti alla costa francese.


(***) Nella relazione italiana che descrive l’incidente non sono indicati i nomi dell’equipaggio del dirigibile T appartenente al 1° Gruppo aerostati, salvo due sigle rinvenute su una camicia e un berretto militare. Ho da parte mia trovato altrove queste notizie: i funerali dei quattro aviatori si tennero a St. Mandrier sur Mer, vicino a Tolone. Erano l’ingegnere René Jean Henri Caussin, capitano del genio, nato il 18 ottobre 1885 a Versailles (Seine-et-Oise, oggi Yvelines) comandante del dirigibile e considerato uno dei migliori (targa commemorativa presso il liceo Hoche di Versailles); il tenente della riserva Adrien Jean Leclerc, nato il 1 agosto 1889 a Lilas; Abel Adrien Edmond Rémia, nato il 6 febbraio 1884 a Jussy (Aisne); Marius-Luis Prouteau, telegrafista, nato il 23 dicembre 1895.


I corpi delle altre due vittime non sono stati trovati, uno apparteneva al tenente di vascello Antoine Luis Marie Barthélemy de Saizieu, nato il 20 gennaio 1878 a Carcassonne (Aude) e domiciliato a Marsillargues (Hérault), entrato nella marina militare nel 1895,  imbarcatosi a Biserta quello stesso giorno. Da non confondere con suo fratello, Luis-Marie Jules (1882-1951), anch'egli pilota e in quell’epoca prigioniero dei turchi in quanto catturato nella penisola del Sinai nel febbraio 1916.

Con il nome del capitano Coussin fu chiamato un nuovo dirigibile. Tali dirigibili, impiegati dalla marina militare, servivano per l'avvistamento di sommergibili nemici e di mine in mare, dunque a protezione di navi e convogli. Anche l'Italia ne era dotata.
  

«Parti de Paris le 11 mai 1916, le T avait gagné sans encombre par la Bourgogne, l'Ardèche, la Drôme, le Vaucluse, le port d'attache de Fréjus où il fit escale. Le lendemain 12 mai, il repartait au-dessus de la Méditerranée pour gagner Bizerte. Le même jour, comme il arrivait vers midi à la hauteur de l'île Asinari, au nord de la Sardaigne, il fut aperçu en flammes, des ports d'Asinari et de Porto-Torres, descendant rapidement vers la mer sur laquelle il s'abattit environnée de feu. Avant la chute et l'incendie, le ballon avait pu faire des signaux de détresses, et les postes de télégraphie sans fil du littoral avaient lancé des appels. Deux bâtiments italiens, un transport français et de nombreuses embarcations se dirigèrent vers le théâtre de la catastrophe».

Qui sotto l'articolo apparso giovedì 18 maggio 91916 su L’Ouest-Éclair – éd. de Caen, n° 6.214, p. 2:




4 commenti:

  1. Dove vai a pescarew queste storie orginali e affascinanti?
    Aspetto il seguito.

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    1. domani, il prossimo parla di un oggetto volante "a forma di sigaro allungato" e del ritrovamento di quattro corpi. da una relazione del tempo. roba che scotta ...

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  2. Non si poteva parlare di tutto, in un giro di tre ore tra asini e cinghiali. E poi non tutti si appassionano a queste cose......

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    1. Infatti, nel primo post ho precisato:
      Mi risulta, invece, che l'ing. Pierpaolo Congiatu conosca molto bene la vicenda di cui qui per sommi capi si narra.
      buon lavoro

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