sabato 14 dicembre 2013

Lo spartito


L’editoriale di Marco Revelli che segue mi è stato segnalato dall’amico Luca, non l’avevo ancora letto quando l'altro ieri ho scritto il mio post sullo stesso argomento. Noto come Revelli usi l’espressione che ho usato anch’io per definire queste manifestazioni dei nuovi poveri: jacquerie. Ciò che impressiona leggere – impressiona sempre, anche quando già conosci quei dati – è il numero delle attività che stanno chiudendo, il numero dei nuovi marginali, d’interi ceti professionali proletarizzati, anzi, ridotti a Lumpenproletariat, tanto per usare un altro termine. È solo questione di tempo e di numeri. Come vado scrivendo qui ormai da quattro anni, fino a quando la massa delle pensioni e degli stipendi pubblici verranno sostanzialmente garantiti, il sistema reggerà. Poi, inevitabilmente, sarà sangue. L'Italia non è la Grecia. Sarà una conseguenza logica delle cose, e LORO lo sanno. Perciò hanno attivato la gabbietta, e attraverso i media mettono in cattiva luce questo genere di proteste sociali e cercano anche di nasconderle. Sono molto più diffuse di quanto ci raccontino televisione e giornali.



Si è parlato di Torino, Genova e poco altro, ma qui nel profondo Veneto la protesta è diffusa e non sembra placarsi. Oggi pomeriggio sarà la volta del blocco della rotatoria che conduce ai grandi centri commerciali di Bassano del Grappa. Una concentrazione di centri commerciali demenziale che ha ucciso letteralmente il tradizionale commercio al dettaglio. Questa protesta, per ora, non preoccupa più di tanto il Potere, ma rappresenta un campanello d’allarme, perciò deve essere denigrata e infangata. Però non si fermerà, siamo solo all’inizio. Il problema è che verrà infiltrata e intossicata. Tuttavia quando verranno a mancare i dindi dalle famiglie, finalmente entreranno in scena gli studenti, non più solo con le marcette, e dopo che saranno stati bastonati per bene, allora è probabile che aprano gli occhi sulla vera natura della società nella quale sono stati finora cullati e si arrivi a un cambio di musica nelle strade e nelle piazze. La storia non si ripete mai uguale, ama le variazioni, ma lo spartito sociale sul quale è scritta, il conflitto tra capitale e lavoro, tra ricchi e poveri, non cambia.

* * *
L'invisibile popolo dei nuovi poveri

di Marco Revelli, il manifesto del 12-12-13.

Torino è stata l’epicentro della cosiddetta “rivolta dei forconi”, almeno fino o ieri. Torino è anche la mia città. Così sono uscito di casa e sono andato a cercarla, la rivolta, perché come diceva il protagonista di un vecchio film, degli anni ’70, ambientato al tempo della rivoluzione francese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». Bene, devo dirlo sinceramente: quello che ho visto, al primo colpo d’occhio, non mi è sembrata una massa di fascisti. E nemmeno di teppisti di qualche clan sportivo. E nemmeno di mafiosi o camorristi, o di evasori impuniti.

La prima impressione, superficiale, epidermica, fisiognomica – il colore e la foggia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muoversi -, è stata quella di una massa di poveri. Forse meglio: di “impoveriti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impoverito: gli indebitati, gli esodati, i falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni a rientrare dallo scoperto, o già costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori, “padroncini”, con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per pagarla, disoccupati di lungo o di breve corso, ex muratori, ex manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite iva divenute insostenibili, precari non rinnovati per la riforma Fornero, lavoratori a termine senza più termini, espulsi dai cantieri edili fermi, o dalle boîte chiuse.

Le fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sottili, oggi in rapida, forse vertiginosa espansione… Intorno, la piazza a cerchio, con tutti i negozi chiusi, le serrande abbassate a fare un muro grigio come quella folla. E la “gente”, chiusa nelle auto bloccate da un filtro non asfissiante ma sufficiente a generare disagio, anch’essa presa dai propri problemi, a guardarli – almeno in quella prima fase – con un certo rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un funerale. E si pensa «potrebbe toccare a me…». Loro alzavano il pollice – non l’indice, il pollice – come a dire «ci siamo ancora», dalle macchine qualcuno rispondeva con lo stesso gesto, e un sorriso mesto come a chiedere «fino a quando?». Altra comunicazione non c’era: la “piattaforma”, potremmo dire, il comun denominatore che li univa era esilis¬simo, ridotto all’osso. L’unico volantino che mostravano diceva «Siamo ITALIANI», a caratteri cubitali, «Fermiamo l’ITALIA». E l’unica frase che ripetevano era: «Non ce la facciamo più». Ecco, se un dato sociologico comunicavano era questo: erano quelli che non ce la fanno più. Eterogenei in tutto, folla solitaria per costituzione materiale, ma accomunati da quell’unico, terminale stato di emergenza. E da una viscerale, profonda, costitutiva, antropologica estraneità/ostilità alla politica.

Non erano una scheggia di mondo politico virulentizzata. Erano un pezzo di società disgregata. E sarebbe un errore imperdonabile liquidare tutto questo come prodotto di una destra golpista o di un populismo radicale. C’erano, tra loro quelli di Forza nuova, certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squadre. E i cultori della violenza per vocazione, o per frustrazione personale o sociale. C’era di tutto, perché quando un contenitore sociale si rompe e lascia fuoriuscire il proprio liquido infiammabile, gli incendiari vanno a nozze. Ma non è quella la cifra che spiega il fenomeno. Non s’innesca così una mobilitazione tanto ampia, diversificata, multiforme come quella che si è vista Torino. La domanda vera è chiedersi perché proprio qui si è materializzato questo “popolo” fino a ieri invisibile. E una protesta altrove puntiforme e selettiva ha assunto carattere di massa….

Perché Torino è stata la “capitale dei forconi”? Intanto perché qui già esisteva un nucleo coeso – gli ambulanti di Parta Palazzo, i cosiddetti “mercatali”, in agitazione da tempo – che ha funzionato come principio organizzativo e detonatore della protesta, in grado di ramificarla e promuoverla capillarmente. Ma soprattutto perché Torino è la città più impoverita del Nord. Quella in cui la discontinuità prodotta dalla crisi è stata più violenta. Parlano le cifre. Con i suoi quasi 4000 provvedimenti esecutivi nel 2012 (circa il 30% in più rispetto all’anno precedente, uno ogni 360 abitanti come certifica il Ministero), Torino è stata definita la “capitale degli sfratti”. Per la maggior parte dovuti a “morosità incolpevole”, il caso cioè che si verifica «quando, in seguito alla perdita del lavoro o alla chiusura di un’attività, l’inquilino non può più permettersi di pagare l’affitto». E altri 1000 si preannunciano, come ha denunciato il vescovo Nosiglia, per gli inquilini delle case popolari che hanno ricevuto l’intimazione a pagare almeno i 40 euro mensili imposti da una recente legge regionale anche a chi è classificato “incolpevole” e che non se lo possono permettere.

“Maglia nera” anche per le attività commerciali: nei primi due mesi dell’anno hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esistenti, 15 al giorno) in città, e 626 in provincia (di cui 344 tra bar e ristoranti). E’ l’ultima statistica disponibile, ma si può presupporre che nei mesi successivi il ritmo non sia rallentato. Altri quasi 1500 erano “morti” l’anno prima. Mentre per le piccole imprese (la cui morìa ha marciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiusure al giorno in Italia) Torino si contende con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei “forconi”) la testa della classifica, con le sue 16.000 imprese scomparse nell’anno, cresciute ancora nel primo bimestre del 2013 del 6% rispetto al periodo equivalente dell’anno prima e del 38% rispetto al 2011 quando furono portate al prefetto di Torino, come dono di natale, le 5.251 chiavi delle imprese artigiane chiuse nella provincia.E’, letta attraverso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi succedutisi nella transizione all’oltre-novecento, tutta intera la composizione sociale che la vecchia metropoli di produzione fordista aveva generato nel suo passaggio al post-fordismo, con l’estroflessione della grande fabbrica centralizzata e meccanizzata nel territorio, la disseminazione nelle filiere corte della subfornitura monoculturale, la moltiplicazione delle ditte individuali messe al lavoro in ciò che restava del grande ciclo produttivo automobilistico, le consulenze esternalizzate, il piccolo commercio come surrogato del welfare, insieme ai prepensionamenti, ai co.co.pro, ai lavori a somministrazione e interinali di fascia bassa (non i “cognitari” della creative class, ma manovalanza a basso costo… Composizione fragile, che era sopravvissuta in sospensione dentro la “bolla” del credito facile, delle carte revolving, del fido bancario tollerante, del consumo coatto. E andata giù nel momento in cui la stretta finanziaria ha allungato le mani sul collo dei marginali, e poi sempre più forte, e sempre più in alto.

Non è bella a vedere, questa seconda società riaffiorata alla superficie all’insegna di un simbolo tremendamente obsoleto, pre-moderno, da feudalità rurale e da jacquerie come il “forcone”, e insieme portatrice di una ipermodernità implosa. Di un tentativo di una transizione fallita. Ma è vera. Più vera dei riti vacui riproposti in alto, nei gazebo delle primarie (che pure dicevano, in altro modo, con bon ton, anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show televisivi. E’ sporca, brutta e cattiva. Anzi, incattivita. Piena di rancore, di rabbia e persino di odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena. Niente a che vedere con la “bella società” (e la “bella soggettività”) del ciclo industriale, con il linguaggio del conflitto rude ma pulito. Qui la politica è bandita dall’ordine del discorso. Troppo profondo è stato l’abisso scavato in questi anni tra rappresentanti e rappresentati. Tra linguaggio che si parla in alto e il vernacolo con cui si comunica in basso. Troppo volgare è stato l’esodo della sinistra, di tutte le sinistre, dai luoghi della vita. E forse, come nella Germania dei primi anni Trenta, saranno solo i linguaggi gutturali di nuovi barbari a incontrare l’ascolto di questa nuova plebe. Ma sarebbe una sciagura – peggio, un delitto – regalare ai centurioni delle destre sociali il monopolio della comunicazione con questo mondo e la possibilità di quotarne i (cattivi) sentimenti alla propria borsa. Un ennesimo errore. Forse l’ultimo.



2 commenti:

  1. Poesia!

    Ho letto anche la tua "gabbietta", che insieme all'articolo presente spiegano l'odierno, e lo fanno in maniera ineccepibile. Appunto, la sinistra non c'è. Non c'è perché non ne esistono i soggetti e anche quando li si trova (faticosamente) parlano d'altro.

    C'è bisogno della sinistra, sì, ma prima qualcuno dovrebbe spiegarmi cosa sia! Forse quella che propone la dittatura del proletariato? Forse quella che parla (e parla, e parla, e parla...) della giustizia sociale? Quale? Come dovrebbe essere tecnicamente? Forse quella che abolirebbe il denaro? Sì, d'accordo, ma poi? O forse quella che parla di ritornare alla lira? E poi? Forse quella che nazionalizzerebbe tutto? E poi i nuovi capitalisti sarebbero i politici?

    Sarà una mia impressione ma il fatto è, che la sinistra non è mai esistita nemmeno tra la gente di sinistra, o che si definisce come tale. Per fare una "roba" di sinistra bisogna mettersi d'accordo su cosa sia la sinistra, sia in teoria, che in pratica. Altrimenti, cavalcando la protesta, anche scientificamente, non saremo meglio di loro. Anche perché non lo siamo.

    La controprova?
    Prendi 10 persone che si definiscono di sinistra a caso e chiedigli di spiegarti in una frase su cosa sia la teoria e la pratica tecnica della sinistra. Ognuno di loro crederà di aver ragione e inizierà la solita di "chi ce l'ha più lungo". Che differenza passa allora tra "noi" e "loro"?

    Quando si dice che per trovare i colpevoli basta guardarsi allo specchio...nessuno escluso!

    Ad maiora.

    Tony

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  2. La colpa è sempre dei Compagni.
    Dei Compagni che duellano su ogni parola:COLLETTIVIZAZIONE O MESSA IN COMUNE DEI MEZZI DI PRODUZIONE. Dei compagni divisi tra:RIVOLUZIONE GUIDATA DA UN’ELITE RIVOLUZIONARIA o UNA RIVOLUZIONE PERMANENTE. Dei compagni che DIRAZZANO fino a diventare DITTATORI o CONNIVENTI COL POTERE. Ma che cercano di CAMBIARE LE COSE.
    Oggi l’unica RIVOLUZIONE possibile è rompere l’involucro di protezione individualistico e far volare la FARFALLA –PERSONA,che riconosce a TUTTE/I la sua stessa IMPORTANZA.
    Ci si riuscirà mai? Non lo so,ma so che è l’unica strada possibile.

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