domenica 24 novembre 2013

Divagazioni domenicali


Le formazioni storico sociali seguono un processo storico naturale nel quale i rapporti di produzione svolgono, come rapporti sociali primordiali, un ruolo fondamentale. Il modo in cui gli uomini producono ciò di cui hanno bisogno per vivere determina anche tutti gli altri aspetti del vivere sociale. E tuttavia, per indagare e descrivere una determinata realtà storico-sociale, i rapporti di produzione, ossia quei rapporti materiali che si formano senza passare per la coscienza dei loro agenti, non sono di per sé esaustivi per rendere conto dell’evoluzione complessiva di quella data formazione sociale.

Per esempio, l’antagonismo sociale tra patrizi e plebei, oppure tra borghesi e proletari, non può essere investigato limitandosi alla sola struttura dei rapporti di produzione (tantomeno ometterla, però!), poiché certe particolarità e costanti vanno ricostruite tenendo presente tutti i rapporti sociali in tutte le loro forme e in tutto il loro movimento. È questo tipo d’approccio a fare la differenza, essenziale, tra il metodo d’indagine marxista e la sociologia borghese.



Il metodo d’indagine marxista parte dall’analisi della struttura economica – che spiega il carattere e l’evoluzione di una data formazione sociale – ossia dai concetti di produzione in generale e da quello di modo di produzione. Con il primo s’intende il semplice fatto che l’uomo riproduce la propria vita con un’attività che non è direttamente determinata dall’ambiente, a differenza degli altri animali i quali riproducono la loro vita servendosi di ciò la natura pone spontaneamente a loro disposizione. Con il secondo concetto s’intende la struttura di rapporti determinati, necessari e indipendenti dalla coscienza degli uomini ed entro i quali essi operano a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive, per cui a distinguere le diverse epoche economiche, da questo punto di vista essenziale, non è semplicemente quello che viene prodotto ma come ciò avviene.

La scienza borghese che prende ad oggetto della sua analisi la società, tende invece a seppellire queste determinazioni storiche essenziali sotto una montagna di fatti e fatterelli concreti, per cui la lotta di classe, ossia gli antagonismi tra dominati e dominatori, assumono le caratteristiche esclusive della lotta tra élite, ossia tra fazioni della stessa classe per la conquista del potere politico.

Per fare un altro esempio, al di fuori della conquista del potere politico, la scienza borghese identifica la proprietà giuridica dei mezzi di produzione con la proprietà economica, ossia con il possesso, laddove la prima determinazione è solo una delle possibili determinazioni della seconda, non necessariamente esclusiva.

Questa realtà non è senza conseguenze nel definire l’appartenenza di classe degli agenti nei rapporti reali di produzione, indipendentemente (o a prescindere, come direbbe Totò) dal fatto che essi detengano la proprietà giuridica. E ciò spiega per esempio la posizione di un Marchionne, tanto per citare un famigerato, ma anche quella di tanti altri rotti in culo che si presentano a capo delle più diverse articolazioni del potere economico e politico e si fanno chiamare manager oppure “tecnici”.

Come detto, il movimento di una formazione sociale è in ultima istanza determinato dallo sviluppo delle forze produttive entro rapporti dotati di una oggettività simile a quella di un processo di storia naturale e indipendenti dalla coscienza degli uomini, e però lo Stato, come insieme sistemico di relazioni sociali dotate di una esistenza relativamente autonoma, si definisce come istanza politica oggettiva dalle molteplici proprietà e determinazioni.

Quando parliamo del ruolo dello Stato moderno, tendiamo a dimenticare che sulle sue istituzioni poggia la riproduzione della formazione sociale capitalistica, dunque le articolazioni dello sfruttamento e del dominio borghese, e che pertanto anche la crisi istituzionale è essenzialmente lo specchio della crisi generale, storica, del processo di valorizzazione del capitale, anche se non direttamente in un rapporto di semplice causa ed effetto.

La creazione di un super-Stato, ossia di quella che un tempo si chiamava comunità economica europea e ora semplicemente unione europea, è per alcuni aspetti un tentativo di aggirare e superare l’impasse, ossia la crisi, in cui versano le istituzioni nazionali. Ciò, con ogni evidenza, non elimina però il movimento della contraddizione fondamentale del modo di produzione (e di scambio!) del capitalismo.

Per altri aspetti, l’aver messo formalmente sullo stesso piano Stati ineguali, è una strategia di simulazione che tende solo ad oscurare (oscurità dissipata in parte dalla crisi) l’interdipendenza gerarchica sotto il controllo di meccanismi economici e politici stringenti disegnati dal capitale più forte. È del tutto conseguente che i rapporti di forza tra gli Stati riflettano l’articolazione delle disuguaglianze poiché (e lo vediamo ogni giorno) si tratta dell’interesse oggettivo degli anelli più forti della catena che soprattutto nella crisi si stringe sempre più attorno al collo dei paesi economicamente più deboli.

Tale dinamica è il prodotto necessario e strutturale del processo di accumulazione capitalistica. L’euro, tanto per andare al sodo, il suo uso politico, va inteso sia come strumento di creazione e di mantenimento di una gerarchia tra gli Stati (proprio perché costringe economie di forza diversa entro lo stesso cambio monetario), di gerarchia della divisione dei settori produttivi e dunque della gerarchia nella divisione europea del lavoro, sia quale strumento della lotta di classe, di squilibrio e disuguaglianze, in un mondo economico dove anche la “solidarietà” è una merce e un ramo della réclame e dello spettacolo.

Dunque, e questo è l’aspetto più duro da far entrare nelle zucche, la questione della crisi non va vista principalmente sul fronte dell'euro in sé quale moneta unica e delle contraddizioni supplementari che esso comporta e che non vengono affrontate per ciò che sono; tolto di mezzo l'euro la contraddizione fondamentale resta assumendo altre manifestazioni della sua pregnante dominanza e divaricazione. Ciò di cui si discute è di togliere di mezzo l'euro e di scaricarne, ancora una volta, gli effetti su salari e pensioni per favorire la competizione del capitale nazionale. Si tratta di un circolo vizioso in cui sguazzano imbonitori politici ed economisti di ogni risma.

Qualunque forma assuma l’organizzazione statale, la sua sostanza è unica, si tratta in un modo o nell’altro, ma, in ultima analisi, necessariamente, di una dittatura della borghesia. È perciò puerile gridare allo scandalo (o richiamarsi alla costituzione) quando gli organismi politici statali (nazionali o continentali) agiscono nel senso di favorire il capitale nelle sue dinamiche, pur dovendo tener conto della riproduzione complessiva delle classi sociali, ossia degli interessi contrastanti di tutte le altre classi, strati e ceti che si organizzano in partiti o gruppi di pressione.

Ciò che non può fare lo Stato, quale ente che materializza i rapporti di forza tra le classi sociali, e dunque qualunque forma assuma la sua organizzazione (democratica, fascista, ecc.) e in qualunque fase di sviluppo (libera concorrenza, monopolistica, monopolistica multinazionale), è di entrare in conflitto aperto con le determinazioni proprie del modo di produzione sulla cui base poggia il sistema.


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