domenica 2 giugno 2013

Laterali


Parliamoci chiaro, di loro non frega realmente niente a nessuno. Né che siano degli schiavi, né del fatto che siano trattati peggio di altri schiavi. Del resto sono quasi tutti così detti extracomunitari, e perciò se non gli va, ritornino da dove sono venuti.

Protestano contro le condizioni nelle quali sono sfruttati dai loro padroni, per essere stati licenziati in cinquanta avvalendosi di un diritto costituzionalmente garantito, lo sciopero, quindi per non aver accettato ancora una volta di piegare la testa. Succede nella civilissima Emilia.

Non si tratta solo di chiedere il rispetto dei diritti dei lavoratori e di quello di sciopero, c’è da chiedersi anzitutto che cosa sono i diritti umani e se essi siano rispettati in questo paese così come altrove. Non avere un lavoro, ho averne uno precario e per un salario da fame, non avere diritto di lottare contro le condizioni di lavoro imposte dai padroni, ha a che fare con il rispetto dei diritti umani, della persona?



Avere a che fare con un padrone riguarda i diritti umani? La superiorità del nostro sistema sociale, rispetto a quelli del passato, sta proprio in questo: il padrone paga il lavoro al suo prezzo legale, e il lavoratore è libero di accettare oppure no. Perciò, dal punto di vista formale e legale il sistema economico e sociale basato sul lavoro salariato non è un sistema di schiavitù.

A prescindere se l’operaio è pagato meglio o è pagato peggio, che l'operaio salariato abbia il permesso di lavorare per la propria vita, cioè di vivere, solo in quanto lavora, per un certo tempo, gratuitamente, per il capitalista (e quindi anche per quelli che insieme col capitalista consumano il plusvalore) è un discorso che i borghesi benpensanti – e anche quelli che pure pensano criticamente questa società – non vogliono prendere nemmeno in considerazione.

Del resto, tanto per cominciare, dove andremmo a finire se dovessimo abolire la proprietà privata? Se non avessimo questi liberi schiavi che smistano le merci, mungono le vacche e puliscono le stalle, raccolgono i frutti dagli alberi e nelle serre, che imballano, puliscono e fanno tutti i lavori che a noi schifano in cambio di una manciata di euro, settori importanti della nostra economica andrebbero in crisi.

Noi siamo perfettamente allineati agli interessi dei nostri padroni, posti su un gradino di relativo privilegio, seppur sempre più scricchiolante. Per non scivolare più in basso ci dobbiamo dimostrare comprensivi e sensibili verso le esigenze di “competitività”.

Perciò non possiamo cambiare troppo le cose, permettere che questi musi colorati interrompano il lavoro per scioperare, semmai possiamo prendere in considerazione dei graduali “miglioramenti” da introdurre con l’accordo dei sindacati e dopo un lungo dibattito mediatico che soppesi i pro e i contro da ogni punto di vista. Tranne il loro, ovviamente.

Ed è per questi sani motivi che questa società si prende criticamente in considerazione solo da un punto di vista laterale. Viceversa, se la critica fosse diretta e riguardasse anzitutto i caratteri profondi e le contraddizioni alla base degli antagonismi sociali nella loro realtà effettiva, cioè capitalistica, si creerebbe una situazione pericolosa e i primi a rimetterci saremmo noi.

Ben sappiamo come si sia sviluppata una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze del modo di produzione capitalistico. E in ciò riceviamo un grande aiuto dai media e un ineguagliabile esempio dalla politica e dalla religione, ossia da tutti coloro che non hanno alcun interesse di mettere gli schiavi nelle condizioni di venire a capo delle ragioni della loro schiavitù, poiché essi diventerebbero dei ribelli consapevoli non solo dei motivi immediati della loro situazione personale, ma soprattutto di quelli più generali e originali che (ri)producono le condizioni stesse del loro sfruttamento.

Perciò la nostra critica deve essere cauta e va indirizzata verso aspetti secondari, non deve essere radicale e anzi restare mediaticamente superficiale, naturalmente senza rinunciare al nostro doveroso sdegno da esibire, per iscritto o a voce, contro le nequizie dei partiti e del governo.

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