lunedì 6 febbraio 2012

L'orgoglio del posto fisso


Se la questione non fosse stata catturata da patetici nostalgici, la vicenda della lingua veneta (ma vale anche per altre lingue) dovrebbe far riflettere sulle circostanze della “colonizzazione” attuata anche sotto tale aspetto dallo Stato sabaudo divenuto italiano. Si tratta di un idioma che continua a essere parlato dalla stragrande maggioranza della popolazione e che fu per molti secoli lingua ufficiale di uno Stato piccolo territorialmente ma assai importante a livello non solo europeo. Una lingua con le proprie regole e un proprio glossario, con la quale venivano normalmente redatti gli atti ufficiali e trattati gli affari, anche internazionali. Soprattutto dopo l’Unità è stata ridotta al rango di “dialetto”, di non lingua, sostituita altresì con una lingua che anche se non si può definire straniera, certamente è rimasta estranea e quasi sconosciuta ai più almeno fino all’egemonia televisiva e all’indottrinamento di massa.

Quando si sente parlare un veneto, questi parla nella sua lingua o, se costretto a usare l’italiano, con una forte inflessione veneta. Non sempre, come invece qualcuno ritiene, per ignoranza e incapacità di esprimersi nella lingua nazionale, ma per un sentimento di appartenenza fortissimo e irriducibile. Questo fatto dà luogo ai più abusati luoghi comuni, per esempio nel cinema, dove vige uno dei più triti cliché della commedia italiana, ossia quello della servetta veneta ignorante e, tanto per non farsi mancare nulla, un po’ puttana. Come il siciliano gelosissimo, tutto coppola e lupara, per intenderci.

Del resto, noi veneti, possiamo essere rappresentati solo come servi (Arlecchino non è maschera veneta), così come i meridionali in genere sono terroni sfaticati e i napoletani dei poco di buono. E così ciò che non è altro che un tratto, spesso solo uno stereotipo, tra molti altri, diventa la peculiarità di un popolo di antiche tradizioni, o almeno delle classi più basse (si diceva così, ora siamo tutti bourgeois perché ci abbiamo la macchina e il cellulare). Insomma, o servi polentoni, oppure magliari e maccaroni.

Vengo al punto del post: previdenza sociale, ossia pensioni. Faccio un lungo passo indietro. Si ritiene comunemente che i primi a introdurre la previdenza sociale siano stati i tedeschi nell’Ottocento. Può anche andar bene, basta ricordarsi però degli antecedenti. Per esempio quello di Venezia, almeno a partire dal XV secolo.

Per passare dall’elemosina pelosa dei ricchi a un pieno diritto garantito, cioè a una previdenza sociale, ci dev’essere chi paga le provvidenze. Per fortuna nei secoli lontani nei quali cominciarono a intravvedersi le prime forme di previdenza sociale c’era tra la gente che comandava molta più avvedutezza che in tipi come il sior Monti o la siora Fornero. A Venezia, osservava Armando Sapori, l’aristocrazia mercantile era arbitra dello Stato, “e naturalmente sospettosa verso le associazioni che raccogliessero le forze del popolo”, ma tuttavia e proprio per tale fatto:

[…] lo Stato stabilì o controllò la predisposizione di provvidenze idonee ad assicurare un minimo di tranquillità al lavoratore, non tanto considerato come individuo, quanto come elemento sociale, la cui serenità si risolve appunto in un bene sociale [Studi di st. economica (secc. XIII-XV), vol. I, pp. 432-33, ed. 1955].

Nei Capitolari delle Arti veneziane, dettate in sostanza dallo Stato nell’”interesse collettivo”, possono essere considerati – scrive Sapori – dispositivi di legge nei quali si ha un vero principio di previdenza sociale. In breve e con degli esempi vedo di dire com’era articolata.

Lo Stato s’interessa dei “poveri maestri vetrani”, cioè delle maestranze anziane, veterane, sancendo che i protomastri  e i maestri che tengono personale alle loro dipendenze debbano assumere assieme ai giovani anche dei vecchi secondo la percentuale di due a dodici (i privati di uno a tre). Tale disposizione valeva per Venezia e il territorio da Grado a Cavarzere. Quanto al salario venne stabilito che per i vecchi ancora non del tutto inabili al lavoro fosse uguale per i più giovani, e per gli inabili totali che fosse della metà. Con i padroni che sgarravano si era inflessibili.

Si dirà: ma in tal modo si mettevano gli anziani a lavorare. Bisogna tener presente – ed è l’aspetto che m’interessa di più dal punto di vista storico – che del lavoro in generale e di quello prestato dagli anziani in particolare, si aveva allora una concezione opposta a quella che può avere un porco capitalista odierno. Oltre al fatto che si trattava di un lavoro prevalentemente di tipo artigianale, anche se organizzato spesso con un carattere già industriale (cantieri dell’Arsenale).

Scrive ancora Sapori: Quanto alla comprensione del valore sociale del lavoratore, basta che tramutiamo la parola “compassion” in “onor” (e con ciò non facciamo certo violenza alla mens del legislatore) perché siamo indotti a inchinarci dinanzi alla lungimirante umanità dei calafati e dei Signori dello Stato di Venezia. I quali, tutti, sentirono che i vecchi maestri, a cui la tarda età aveva ridotto o spento la vigoria delle membra, ma non assopita la forza creatrice e tanto meno la passione per il “mistier”, non potevano essere allontanati dall’Arte. La beneficenza li avrebbe mortificati; e la stessa pensione, ancorché conferita come un diritto che avrebbe loro permesso di trascinare gli ultimi giorni dell’esistenza nella quiete di una calle, lontano dal frastuono del mare, avrebbe lasciato il rimpianto dei compagni di lavoro, delle navi che erano l’orgoglio e la grandezza della patria. E vollero, per questo, che il maestro veterano morisse al suo posto, combattente egli pure di una nobile e grande battaglia, onorato dai giovani, esempio ai giovani, guida ai giovani nel menare il rude e intelligente colpo d’ascia: retribuito infine, per i suoi consigli, come lo era stato per la sua opera [p. 440].

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