sabato 18 giugno 2011

Il lavoro come merce


A Genova sono in assise 600 delegati, a parlare di lavoro. Molti di questi personaggi , specie quelli che siedono nei seggi più alti, con il lavoro, quello vero, non hanno mai avuto nulla da spartire. Sono andati a scuola e magari non si sono nemmeno laureati, presi dalla “passione” politica. Oppure altri hanno preso atto che è meglio discutere del lavoro altrui “facendo” sindacato. Tutto ciò che sa di cambiamento reale e radicale dello stato di cose presenti diventa ai loro occhi destabilizzante, utopia, roba per gente che non sta con i piedi per terra, sognatori che non vedono come va il mondo, per nulla pragmatici e perciò stesso spesso pericolosi.  Loro concepiscono il lavoro solo come merce e il lavoratore normato da un contratto, cioè il rapporto di lavoro tra padrone e salariato.

«Lo schiavo romano era legato al suo proprietario da catene; l’operaio salariato lo è al suo da invisibili fili. L’apparenza della sua autonomia è mantenuta dal continuo mutare dei padroni individuali e dalla fictio juris del contratto» (Il Capitale, I, cap. XXI).

Ma Marx, si sa, è roba superata, lui parlava dell’operaio dell’Ottocento, noi abbiamo invece a che fare con l’operaio tutelato dello statuto dei lavoratori e dalla costituzione. Gl’importa un fico se l’attività concreta dei produttori non è direttamente lavoro sociale, ma privato; e ancor meno se si tratta di produrre strumenti di morte o valori d’uso atti a soddisfare esigenze di vita. Ciò che interessa alla maggior parte di questi mantenuti è essere riconosciuti come mediatori autorizzati della gestione dei rapporti tra capitale e lavoro, insomma degli ottimizzatori della merce “lavoro”.

Essi non riescono ad immaginare una società dove la produzione e le sue condizioni non siano soggette al valore di scambio, nella quale lo sviluppo libero, illimitato, progressivo e universale delle forze produttive costituisce il presupposto stesso della società e di una nuova umanità. Essi non riescono ad immaginare i luoghi del vivere se non come luoghi dell’abitare e del produrre di individui consumatori, miserabili platee di spettatori allucinati, elettori coatti e illusi di poter vincere contro bersagli illusori.

Eppure tutto ciò che oggi appare ancora come una forzatura dell’immaginazione è un movimento che, per chi lo sa cogliere, diventa sempre più evidente come la sola realtà possibile in superamento di un sistema che, preda delle sue contraddizioni, ha creato esso stesso le forze materiali per il suo superamento. A frapporsi non è più, come in passato, un limitato livello storico di sviluppo delle forze produttive, inteso come ricchezza sociale e il modo di crearla. Oggi esiste la possibilità concreta di superare quel limite da molti tutt’ora considerato sacro; la possibilità cioè che si affermi davvero l’universalità dell’individuo, non come pensata o immaginata, ma come universalità delle sue relazioni reali e ideali.

2 commenti:

  1. Sto sperimentando sulla mia pelle la realtà della citazione dal Capitale ...
    Ho sempre cercato di non essere un mero consumatore, né di prodotti, né di cultura. Tuttavia la mia individualità è ben lontana dall'universalità delle mie relazioni reali e ideali.
    In fondo resto uno schiavo ... di me possono fare quello che vogliono. Posso solo frappore la mia piccola capacità, la mia piccola volontà, ma se decidono di schiacciarmi non posso che soccombere.
    Anche oggi, nell'era di Internet, del villaggio globale, della tecnologia più sviluppata e dei viaggi intercontinentali low cost, c'è qualcuno che ha in mano il mio pane. E può decidere di non darmene più.
    Eppure voglio combattere, capire sempre di più, non arrendermi ... ma come fare?
    Massimo

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  2. c'è qualcuno che ha in mano il mio pane

    già, non per nulla lo chiamano "il costo della vita"

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