mercoledì 22 settembre 2010

Conflitti e instabilità monetaria


Dietro le tensioni “territoriali” e la guerra dei “pescherecci” tra Cina e Giappone, si celano le profonde contraddizioni in corso nell'economia capitalistica.
Le controversie tra Stati Uniti e Cina per il corso del dollaro-renminbi hanno alimentato le tensioni monetarie internazionali per qualche tempo. Mercoledì scorso il conflitto ha acquisito un'altra dimensione quando il governo giapponese è intervenuto sui mercati valutari con 23 miliardi dollari a sostegno dello yen troppo caro, spingendo così verso il basso il valore dello yen di circa il 3% rispetto al dollaro USA.
Il significato dell'intervento non stava solo nella sua dimensione, ma nel fatto che il governo giapponese ha agito unilateralmente. Questo ha prodotto una severa critica da parte delle autorità europee per le quali le "azioni unilaterali non sono il modo di affrontare gli squilibri globali" e la condanna del Senato degli Stati Uniti che per bocca del presidente della commissione bancaria Chris Dodd ha detto che l’intervento unilaterale di Tokyo “ha rotto gli accordi internazionali”. Significativamente, però, l’amministrazione Obama, che considera il Giappone come un alleato essenziale nell'area e nel suo conflitto con la Cina, non ha fatto commenti.
Infatti le tensioni Usa-Cina, per quanto riguarda un ventaglio di temi, sono palesi. A cominciare dalla questione del cambio che rende le merci cinesi tanto competitive. La scorsa settimana il segretario del Tesoro americano, Timothy Geithner, nella sua testimonianza davanti al Congresso, ha chiesto alla Cina di permettere alla sua moneta di crescere a un ritmo più veloce rispetto al dollaro. L'amministrazione americana, ha detto il segretario, sta “esaminando la questione per mettere in campo un mix di strumenti per poter aiutare le autorità cinesi a muoversi più rapidamente in tal senso".  Si tratta di un eufemismo diplomatico per dire che gli Usa sono “sul punto di minacce di sanzioni commerciali”, come non ha mancato di osservare Robert Reich, l’ex Segretario del lavoro di Clinton. Altri commentatori hanno inoltre rilevato come il conflitto sulle valute stia assumando un significato molto simile al tipo di guerra commerciale che ha caratterizzato gli anni Trenta.
La fonte immediata degli antagonismi è data dagli effetti della stagnazione dell'economia mondiale e dalla necessità vitale che gli stati hanno di sostenere le proprie esportazioni. L'amministrazione Obama vuole un dollaro più basso per rendere più competitiva l'industria americana; di contro, le autorità cinesi temono che un troppo rapido aumento del renminbi colpirebbe le imprese manifatturiere che operano su bassi margini di profitto, favorendo la disoccupazione e l'aumento delle tensioni sociali; gli esportatori giapponesi, dal canto loro, dopo vent’anni di stagnazione e deflazione, sostengono che non possono sostenere un corso del dollaro-yen come negli anni '80 e insistono per una rivalutazione delle altre monete forti rispetto allo yen. Le potenze europee, soprattutto la Germania, nazione guida, dove le esportazioni rappresentano circa il 40 per cento del Pil, vogliono mantenere il valore dell'euro a circa $ 1.30, piuttosto che il livello di 1.50  com’era fino ad epoca recente.
Mentre questi conflitti sono alimentati dall’immediata situazione economica mondiale, essi peraltro marcano un profondo significato storico, rappresentando palesemente una delle forme della contraddizione irrisolvibile nel cuore stesso del sistema capitalistico: quella tra l'economia globale e la divisione del mondo in stati-nazione rivali.
Ogni nazione capitalista ha una propria moneta, sostenuto dal potere dello Stato all'interno dei suoi confini. Ma nessuna moneta è di per sé il denaro mondiale. Tuttavia, per funzionare, il sistema capitalistico ha bisogno di uno strumento di pagamento riconosciuto a livello internazionale.
L'accordo di Bretton Woods del 1944, in base al quale la moneta Usa era legata all’oro al prezzo di 35 dollari per oncia, era inteso a istituire un sistema monetario mondiale vitale senza il quale l'economia globale sarebbe ritornata rapidamente alle condizioni e alle tensioni del 1930.
L'accordo stabilì che il dollaro USA, in virtù della schiacciante superiorità economica del capitalismo americano, avesse effettivamente funzione di moneta mondiale, svolgendo un ruolo decisivo nel ristabilire i flussi del commercio mondiale e degli investimenti. Tuttavia il sistema di Bretton Woods si basava su una contraddizione che il tempo avrebbe messo in luce. Il mantenimento della liquidità internazionale ha richiesto un deflusso di dollari dagli Stati Uniti al resto del mondo, ma questo deflusso imponente di cartamoneta ha infine minato il rapporto tra dollaro e oro, cioè la quantità di dollari in circolazione nel mondo era andata ben oltre la quantità d'oro in possesso del Tesoro degli Stati Uniti. Saltava quindi la base dell’accordo, ovvero la possibilità teorica e pratica di convertire biglietti verdi in oro lucente.
Infatti, il divario dollaro-oro costantemente ampliato per tutto il 1960, costrinse il presidente Nixon alla famosa dichiarazione del 15 agosto 1971, con la quale si stabiliva che il dollaro non sarebbe più stato convertibile in oro. Con la fine del sistema di Bretton Woods, la capacità del dollaro di continuare a funzionare come moneta mondiale subiva un durissimo colpo, prodromo di ulteriori crisi, non ultima quella dei cosiddetti petrodollari del 1973.
Tutto questo dimostra la centralità dell’oro quale equivalente universale e ancora una volta la giustezza e la potenza dell’analisi marxiana (v. in particolare il cap. III del I Libro de Il Capitale, per la critica dell’economia politica).
Entro la fine degli anni 1980 gli Stati Uniti perdevano la propria supremazia e da paese creditore del mondo, erano diventati il suo principale debitore, dipendente dagli afflussi di capitali dal resto del mondo. Questo afflusso veniva e viene mascherato, in una certa misura, dal marciume interno e dal decadimento del sistema finanziario americano come dimostrano le ricorrenti crisi finanziarie, a partire dal crollo del mercato azionario nel 1987, la crisi del legame del 1994, il tracollo del fondo hedge Long Term Capital Management nel 1998 e la cosiddetta crisi-tecno del 2000-2001, per arrivare al tracollo di Lehman Brothers il 15 Settembre 2008.
Come ho già detto, l'economia capitalistica globale, prescindendo da altre sue contraddizioni immanenti al processo di accumulazione, richiede una moneta di riserva mondiale stabile che garantisca le transazioni. Ma, come detto, il dollaro è sempre più incapace di svolgere quel suo vecchio ruolo, né c’è un’altra moneta che possa sostituirlo: né l'euro o lo yen,  ovvero il renminbi.
La crescente mancanza di fiducia in tutte le valute di carta si riflette nel prezzo crescente dell'oro, che raggiunge periodicamente nuovi record (e ben presto ne raggiungerà altri). Ma un ritorno al gold standard non è una soluzione auspicabile (ma non inevitabile) anche perché porterebbe ad una contrazione massiccia di credito, gettando l'economia mondiale in una depressione addirittura più grave a quella del 1930.
L’economia mondiale sarà quindi sempre più instabile e l’incubo di conflitti militari sempre più probabile.

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