martedì 23 febbraio 2010

«per far la guerra giusta ...»



Leghismo ante-litteram
«Dopo la vista deprimente dei soldati italiani che imploravano un pezzo di pane alla stazione di Verona, [un capitano inglese] fu rallegrato di incontrare alcuni alpini che parlavano abbastanza bene l’inglese da attribuire ai meridionali la responsabilità di Caporetto …» [347].
Effetto serra
«I soldati inglesi amavano quel punto di appostamento [il Montello, a nord di Treviso]: di giorno, rafforzavano le linee di comunicazione e le difese sull’altura; di notte “giocavano nelle acque del Piave”; quei giorni di estate indiana [tardo autunno 1917] erano molto caldi, le notti limpide e fredde, e c’era abbondante provvista di legna da bruciare. Il giorno di natale fu così caldo che “potemmo starcene tranquillamente seduti senza camicie, per liberarci dei pidocchi”» [pp. 347-48].
Tema in classe
«[gli ufficiali] quelli che danno gli ordini non sono ancora stanchi di uccidere tanta povera gente che non ha colpa: per far la guerra giusta bisognerebbe fare così: 1) mandare tutti quelli che vogliono la guerra perché già che la vogliono devono farla loro; 2) mandare avanti i ricchi che danno “fondi” al prestito nazionale di guerra; 3) mandare a casa i poveri. Così sarebbe una guerra giusta!» [353].
La maestra della scuola elementare in provincia di Mantova denunciò i suoi scolari ai carabinieri e al magistrato locale per tendenze «sovversive».
Sempre eccezionali
«Quando l’esercito di Cadorna si era ritirato dopo Caporetto, la maggior parte della popolazione aveva cercato di portare via i suoi averi: non meno di 400mila civili erano fuggiti oltre il Piave, e fra essi dipendenti statali, proprietari terrieri, avvocati e così via. L’unica eccezione erano stati gli ecclesiastici, perché molti sacerdoti erano felici di vedere il ritorno degli austriaci» [367].
Solidarietà di classe
«[…] l’oblio ha occultato un argomento ancora più delicato fino ai recenti anni novanta. Si tratta dell’atteggiamento ufficiale dell’Italia nei confronti dei prigionieri di guerra italiani nei campi austriaci e tedeschi. I 300mila soldati presi prigionieri durante la Dodicesima battaglia andarono ad unirsi ai 200mila o più che erano già tenuti reclusi nei campi di tutto l’Impero. […] il governo italiano, unico fra tutti, si rifiutò di inviare pacchi di viveri ai suoi prigionieri di guerra. Di conseguenza, oltre 100mila dei 600mila prigionieri italiani morirono durante la prigionia: una quota nove volte superiore a quella dei loro omologhi asburgici tenuti prigionieri in Italia. Solo 550 di costoro erano ufficiali che morirono di tubercolosi o in seguito a ferite; gli altri [i soldati semplici] morirono direttamente o indirettamente per il freddo e per la fame. […] le collette di beneficienza per i soldati prigionieri erano vietate. A titolo di concessione, alla Croce rossa era stato consentito di accettare i contributi ma solo per gli ufficiali» [371].
Il solito imboscato psicopatico, D’Annunzio, aveva bollato i prigionieri quali “peccatori contro la Patria, lo Spirito e il Cielo”.
Culinaria
«Soldati e civili mangiavano tutto ciò su cui riuscivano a mettere le mani: topi, fiori d’acacia, foglie di vite, cicoria selvatica raccolta dalle aiuole. Cani randagi e gatti venivano scuoiati e messi in pentola» [368].
Completa fiducia
Mentre era in corso la rotta da Caporetto, Cadorna, durante la prima colazione nel suo nuovo palazzo di Treviso (era fuggito da Udine), ad oltre cento chilometri dal fronte, «parlò dell’arte del paesaggio dell’Umbria, impressionando i suoi commensali con la sua serenità, uno stato d’animo che presumibilmente doveva qualcosa alla dichiarazione del re e del governo che avevano espresso completa fiducia nel suo comando militare» [336]. Quindi emise un ordine del giorno che diceva: «Chiunque non senta di dover vincere o cadere con onore sulla linea di resistenza, non è adatto a vivere».

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